Parto il 7 Novembre alle 5 di mattina verso Milano per visitare un fornitore da qualificare, bisogna evadere la check list come da procedura.
Abbiamo un problema di evasione delle commesse di revisione, urge trovare qualcuno che ci aiuti a ripristinare le scorte di distributori per il nostro magazzino centrale.
Viene Vadim con me, ho bisogno dell’occhio critico di un tecnico spietato, quello che controlla la qualità ed i processi in maniera minuziosa.
Avevo letto tra le mie infinite mail che questo fornitore era ubicato nel penitenziario di Bollate, un articolo comparso sui social mi aveva fatto conoscere questa realtà la cui particolarità era il fatto che all’interno si sviluppassero attività produttive dove le maestranze erano composte prettamente da detenuti.
Onestamente a muovermi era più la curiosità di vedere come fosse un penitenziario di quel genere che la reale necessità di qualificare il fornitore.
Arriviamo a Milano zona Ex Expo verso le 10 e fuori ad attenderci c’è Giacomo, il responsabile della cooperativa che gestisce il tutto. La sala d’attesa è piena di conoscenti e familiari dei detenuti, la guardia ci invita a spegnere e lasciare i telefoni, non è consentito essere connessi all’interno.
Entriamo all’interno del recinto, “E’ già penitenziario qui?” chiedo.
Giacomo risponde “Non ancora!” e dopo pochi minuti arriviamo ad un secondo check point. Qui il muro di cinta è decisamente più alto ed i controlli più serrati, mostriamo il pass e la porta ci viene aperta.
Entriamo nel primo edificio e Giacomo inizia a snocciolare numeri, a raccontare come sono organizzati lì, come si sviluppano le attività produttive, insomma a fare gli onori di casa.
Rapito da quei racconti camminavo senza che mi rendessi conto ancora di dove fossi. Ad un certo punto chiedo “Dove sono le celle?” Giacomo risponde: “Stiamo già percorrendo un’ala del penitenziario, ti spiego meglio… quelli con l’uniforme sono le guardie, quelli in borghese sono i detenuti.”
Ho un sussulto, camminavamo già da un po’ insieme a loro in quei corridoi lunghissimi, i pensieri e le considerazioni che si fanno in genere decadono immediatamente, le supposizioni che vengono fatte dall’esterno di colpo diventano un’idiozia.
Siamo in mezzo a persone che hanno sbagliato e che si stanno rimettendo in gioco, stanno concedendosi una seconda possibilità, la vita glielo sta permettendo.
Ci sono 1.500 detenuti in quel penitenziario, la maggior parte lavora in attività produttive di ogni tipologia, si stanno formando e sono formati per un veloce reinserimento una volta fuori di lì.
Numeri dimostrano che ben il 70% di loro non cade più in una recidiva una volta fuori, in pratica la statistica contraria dei penitenziari che non portano avanti attività formativa.
Entriamo nelle aree produttive e Giacomo ci indica a destra e sinistra le aziende dove sono impiegati diversi detenuti. Entriamo nei reparti dove lavorano i nostri, prima però attraversiamo un call center, mi spiegano che è l'unica area dove ci sono uomini e donne, è l'unica area dove è permesso. È severamente vietato vivere mischiati, fa impressione questa cosa.
Arriviamo all'area revisione distributori, nel sottofondo della musica scorgo un po' di volti, ci sono ragazzi giovani di varie nazionalità. Ci presentano J. è un sudamericano, il capofficina.
Ci illustra il processo nei minimi dettagli con una competenza e sicurezza impressionante, i suoi collaboratori si fermano in attesa di istruzioni, non si muove niente senza il suo stretto controllo.
Vadim, il nostro tecnico, ascolta come J. descrive in maniera minuziosa tutti i processi, tutte le attività preventive che mettono in atto. Vedo con piacevole sorpresa che ha le competenze per valutare ogni singolo componente del distributore automatico, è altamente qualificato ed umile nel mettere in discussione ogni minimo dettaglio.
Rimaniamo lì un’ora, ci salutiamo e mentre percorriamo le vie al contrario, nel mio cervello scorrono le immagini ed i volti di quei ragazzi, il loro rispetto e la loro ospitalità, quasi fossero felici di aver trovato un nuovo potenziale cliente.
Usciamo, parlo con Vadim, era ora del giudizio… Il suo “Per me va bene” mi apre il cuore.
Sono felice che quei ragazzi possano migliorarsi ancora e nutrire la speranza che una volta fuori possano ritornare a mettersi in gioco.
La vita offre sempre una seconda possibilità. Si chiama domani.
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